Pensieri sul Jobs Act

Un recente articolo del Corriere Bologna, tratta di una “spaccatura generazionale” sul Jobs Act. Cita ad esempio il rapporto tra due persone note: Adriano Turrini e il figlio Alberto, l’uno Presidente di Coop Adriatica, l’altro esponente dei “giovani DEM” come oggi si usa dire.

La questione potrebbe considerarsi chiusa con le stesse parole del Senior, che, per chi ha letto il breve scambio su fb (troppo breve per estrarne tanto materiale), bollava la “diversità” di vedute come il più vecchio clichè del rapporto padre/figlio.

Ma vorrei prenderla ad esempio per una brevissima serie di considerazioni, citando le affermazioni a prescindere dagli autori. Nessuna personalizzazione, solo un piacevole spunto, perchè credo sia rappresentativo di frequenti confronti.

“Io preferisco un sistema che protegge il lavoratore, non il posto di lavoro”

Per i “giovani”, e non parliamo di anagrafe visto la trasversalità del sostegno, il cambiamento parte da qui: il lavoro non deve essere “ingessato” e il lavoratore tutelato. Condivisibile il principio, che approfondito porterebbe in primo piano l’idea che il lavoro possa essere dinamico, sia per potenzialità di crescita che per vivacità di mansioni. Non più burnout, (#bastaburnout non sarebbe male) ma stimoli e crescita, per il lavoratore e per le imprese.

Dato il principio, mi risulta difficile considerare idoneo lo strumento atto a conseguirlo.

Sei assunto a tempo indeterminato, ma a tutele crescenti per i primi tre anni

Il nome “indeterminato”, verso banche, credito e ansia da scadenza rappresenta una garanzia contro “usa e getta”? Nessuna. Perchè alla fine dei tre anni nulla impedirà all’azienda di mandarti a casa.

Le banche ti concederanno un mutuo, ritenendo tale contratto uno strumento a garanzia? Non credo proprio, a meno che non si parli di un credito da estinguere entro il periodo di lavoro “garantito”. Con l’aggravante che, pur ricollocandoti immediatamente dopo, non potrai certo offrire garanzie di un reddito simile su cui parametrare una rata dello stesso. Interverrà quindi sempre papà, ammesso che possa (per molti non può)

Il “lavoratore è tutelato, non il lavoro”, ribadiamo. Come si sposa questa affermazione con il “demansionamento”?

Il lavoratore, al suo ingresso, non viene forse valutato su specifiche competenze? Non rappresentano esse stesse il “valore” principe dell’apporto in azienda? Quindi, se per comprensibili esigenze aziendali, il lavoratore viene posizionato su ruoli “inferiori” alle sue capacità produttive, non si compie il peggior esempio di “tutela del lavoro” e non del lavoratore?.

«È inaccettabile che un dipendente pubblico abbia il posto di lavoro maggiormente protetto rispetto a un lavoratore del settore privato».

Non vedo alcun cambiamento di rotta. E come potrebbe una regolamentazione del privato, incidere sul pubblico? Vedremo, prima o poi, la ministra Madia intervenire sul pubblico, quindi attenderò. Il pubblico è amministrato dalla “politica”, e vista la difficoltà a ridurre qualche compenso esoso di piccoli gruppi di dipendenti, credo non vedremo nulla. Ma certo l’intervento su art. 18 e tutele “crescenti”, mi pare abbiano indebolito il secondo, non il primo.

 C’è un altro aspetto, fin’ora appena accennato, che più che moderno definirei retrogrado: l’estensione dei permessi per maternità da tre a sei anni.

Sappiamo tutti che in Italia sono pochi gli uomini che accedono ai permessi per “paternità”. Sappiamo che spesso è una scelta legata al reddito, perchè gli uomini guadagnano di più e solo dei pirla rinuncerebbero a risorse essenziali, ancor più con l’arrivo di un figlio.

In sintesi quindi, nulla facciamo per una politica che rimuova simili disparità. Nulla per offrire strumenti di aiuto alle madri lavoratrici (es. convenzioni o sostegno ad aziende che si dotino di asili aziendali, o forniture alimentari e non per i neonati, parametrati al reddito etc etc). Nella migliore delle ipotesi releghiamo le donne ad eterni part time.

Però, moderni e animati dal fuoco del cambiamento, “concediamo” alle donne di stare ben sei anni a casa. Perchè facciamo finta di non sapere cosa significhi stare lontana tre anni dal mondo del lavoro, figuriamoci sei.. una espulsione soft delle donne dal mondo del lavoro, qualora la crisi non fosse sufficiente, unitamente allo sfascio del welfare, con annessi parenti anziani a carico. Delle donne ovviamente, come da giro descritto.

In merito alla demolizione finale dell’art. 18, in particolare per le opzioni di reintegro a fronte di licenziamento ingiusto, faccio mie le parole di Marco Biagi (sgombriamo il campo così da preconcetti sull’idea di riforma), e la sua visione, che non avrebbe sacrificato diritti, ivi compresi quelli delle aziende: “La riforma degli strumenti non può prescindere da un solido intervento sulla giustizia del lavoro. I tempi di celebrazione dei processi, risolvendosi in sostanza nel diniego della giustizia stessa, sottolineano il grave stato in cui versa la giustizia del lavoro in Italia. Un efficiente mercato del lavoro necessita di tempi di risoluzione delle controversie sufficientemente rapidi. Occorre trovare nuove forme di amministrazione della giustizia, guardando alle esperienze europee, quale l’istituzione di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi.”

Il giuslavorista prospettava un contemporaneo impianto di tutele reali, quelle sul reddito minimo, e l’incontro diretto tra domanda e offerta (e non il proliferare di agenzie interinali, con doppio passaggio e doppio sfruttamento). Elementi ad oggi appartenenti al mondo delle fiabe, eppure essenziali per un’economia che debba uscire dall’auto avvitamento.

“È però vera una cosa: quando una persona ha vissuto tutta una vita con le stesse regole, alla fine può sentirsi influenzata dai propri trascorsi. È normale”.

Ebbene, la critica può non nascere da una “comoda posizione” o da “trascorsi lunghi fatti di regole acquisite”.  Al contrario, nasce da  esperienze, dinamiche a dispetto di contratti “ingessati”, di momenti con tutele assenti e di altri con tutele presenti ma mai abusate. Dal non aver mai smesso di studiare e provare a comprendere. Di incontri con imprese oneste e altre meno, con colleghi onesti e altri meno. Dal lavorare e dallo studiare, dal vivere le aziende e studiarne soluzioni pratiche.

E la critica non deve mancare di elementi propositivi, come quelli citati partendo dal testo di Marco Biagi ne “Il libro bianco” (tanto criticato in misura direttamente proporzionale alle poche volte che è stato letto)

Specifico che tutto verte su un disegno delega ampio e generico, (su cui non mancano ombre di incostituzionalità) e i conseguenti decreti “attuativi” che conosciamo e conosceremo solo una volta emanati. Una azione di questo tipo si presta a porre il governo in una posizione di forte autonomia dal Parlamento, tanto cara al Governo del fare e del  twittare, e non ne comprendo l’esigenza (se non in funzione di “comunicato”, stile “Fatto” berlusconiano). Ma svilisce qualsiasi ipotesi di contributo propositivo, anche solo teorico.

Contributi che poggerebbero proprio sulla parte più debole dell’azione di Governo:

Un Paese come il nostro necessita di cambiamenti (al plurale) simultanei, ma condotti attraverso una chiave essenziale: la lotta alla corruzione. Nel privato come nel pubblico. Corruzione significa, tra le tante cose, porre in posizioni apicali persone che non hanno mezzi e strumenti per assolvere al meglio il ruolo per cui vengono scelti. Il familismo è diventato il peggior requisito del sistema Italia, e chi teorizza di lavoro spesso ne ha visto ben poco. Le Università dovrebbero coesistere con esperienze dirette sul campo, per evitare generazioni di neo laureati quasi totalmente inabili al contesto in cui, spesso con presunzione, tentano di entrare. Le Aziende dovrebbero poter assumere senza oneri medievali ma al contempo senza spazi di “autonomia” medievale dai diritti dei lavoratori.

Vedi Alberto (ma anche Carlo, o Andrea o chiunque sostenga certe posizioni), tuo padre rappresenta migliaia di uomini che hanno lavorato più degli anni che ad oggi tu compi, parte dei quali senza tutele o vantaggi facili. Non hanno frequentato Università, ma non hanno mai smesso di studiare, per evolvere se stessi e la società intera. Tuo padre, come il mio, non hanno vissuto sempre “con le stesse regole” tanto da esserne affezionati come ad una sposa: al contrario, non ne hanno avute e se le sono dovute costruire, con rischi e fatiche. Perchè  è dall’assenza di regole che capisci la loro importanza. E le cambi con cura, quando necessario. Ho fatto scelte diverse da mio padre, caro Alberto, come da clichè.  Ma non con lo spirito da “rottamatrice”. Cambiare, credo, sia andare avanti e oltre, maturando nuovi progetti, preservando i vecchi che ne sono alla base. Potrai fare nuove strade, ma se vorrai che siano tali, evita, se puoi,  di ignorare le impronte di chi ti ha preceduto: solo così saprai che ciò che intraprenderai sarà realmente una strada nuova.

Link http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/politica/2015/4-marzo-2015/presidente-coop-critica-jobs-act-figlio-non-ci-sta-papa-sbagli-2301061528726.shtml http://www.uil.it/politiche_lavoro/librobianco.pdf http://www.pmi.it/impresa/normativa/whitepaper/89899/jobs-act.html Link immagine http://www.investireoggi.it/imprese/files/2014/12/jobs-act1.jpg

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